sabato 18 dicembre 2010

THE IMPORTANCE OF BEING…SOCIAL


Il buon Oscar Wilde, ma soprattutto il buon Earnest, non se la prenderanno se li chiamiamo un attimino in causa e defraudiamo lo scrittore irlandese del titolo di una delle sue più famose opere teatrali.
Ma, a dirla tutta, mai parole furono più adatte per descrivere l’andazzo che, volenti o nolenti, tutti quanti stiamo prendendo. E, per “tutti quanti”, intendo precisamente “tutti quanti”: giovani, adulti, anziani, ricchi, poveri, famosi, sconosciuti, onesti, farabutti, uomini, donne, persone, società multinazionali, piccole azienda, cani, canarini, pesci rossi, sedie, tavoli, pillole e lampadari.
Tutti, e dico tutti, sentono il bisogno di mettersi “in rete”.
La riflessione, già in via di maturazione in me da molti mesi, ha subito una notevole accelerazione dopo due fatti salienti: la visione del film “The social network” e la lettura di un articolo dal titolo “L’azienda si fa social” (Capital, numero di novembre 2010, n.d.a.).
Nel sopra citato articolo si parla di quanto sia importante per le aziende avere una pagina su Facebook, Twitter, Flickr, LinkedIn, o un proprio canale su YouTube o ITunes. Tali strumenti, argomentano gli esperti di Gartner Group, sono essenziali per raccogliere dati sulle preferenze dei clienti, rispondere in modo rapido alle loro richieste, fornire assistenza, garantire visibilità, offrire feedback molto più rapidi e gratuiti, interagire con i partner o i potenziali portatori di interessi. E come dare torto a tali esperti, se Facebook, il social network più importante, è, per numero di iscritti, il terzo Paese al mondo, con i suoi 500 milioni di followers (dato, chiaramente, in costante evoluzione), secondo solo a Cina e India (siamo sicuri, ancora per poco)? 
E i ritorni economici? Gli stessi esperti dicono che non ha importanza misurarli. Le statistiche dicono che il 76% delle aziende “sociali” non ha idea del ritorno economico procuratogli dall’essere “sociali”. In soldoni, per i manager l’importante è “esserci”.
E veniamo al film. L’ho visto non molto tempo fa e, malgrado la scarsa qualità dello streaming (sì, internet fa ancora brutti scherzi), mi è piaciuto. Non tanto per la storia, che tutti conosciamo bene e che non smette, nonostante tutto, di lasciare a bocca aperta, ma perché mi ha fatto particolarmente riflettere sul fenomeno in atto.
Procediamo con ordine. Marc Zuckerberg, il “billionaire” più giovane al mondo, decide, nel rigido inverno bostoniano del 2003, di creare un sito che permetta di mettere a confronto i volti di ragazze dell’università di Harvard e scegliere la più carina. Nato per vendicarsi di una ragazza che lo aveva scaricato (non è ben chiaro dove finisca la leggenda e inizi la storia), “face match” ha successo. Ma Marc e i suoi due collaboratori, Eduardo Saverin e Dustin Moskovitz, ricevono (giustamente) critiche da parte dei piani alti del college (d’altronde, se ti introduci nei sistemi interni di facoltà e rubi fotografie e dati, non puoi aspettarti altro). E qui l’idea geniale: un sistema che permetta, a tutti quelli che, di loro sponte, vogliono iscriversi, di avere un profilo e interagire liberamente con tutti gli altri membri del college iscritti. La casa funziona e si estende anche alle università di Yale, Stanford, Columbia; poi a tutte le altre dell’Ivy League; poi in Europa. Poi il boom: tutti possono avere un profilo Facebook. E’la svolta. La società oggi è stimata 50 miliardi di dollari, e, a soli sei anni dalla sua nascita, è la pagina web più visitata al mondo.
La domanda sorge spontanea: perché tanto successo? La stragrande maggioranza degli utenti Facebook si trova spesso a porsi domande del tipo “ma a cosa serviva internet prima che inventassero Facebook?”. E questa, a mio parere, è una cosa tanto grave quanto indicativa di una società in cui i rapporti umani fanno sempre più spazio a quelli virtuali, “Facebookare” è diventato un verbo di uso comune, e “se non c’è su Facebook, allora non è vero” (e io che mi limitavo a usare la stessa espressione solo per Wikipedia). Secondo il mio modesto punto di vista, l’utilità del social network è decisamente inferiore ai “danni” che sta provocando. Riflessione drammatica? Forse. Ma il congelamento che vedo nei rapporti, la scarsità di gente che predilige alla parola “parlata” quella “digitata”, l’importanza attribuita a link, foto, bacheche, mi spaventa non poco.
Zuckerberg e gli avvocati matrimonialisti possono stare tranquilli; non sono in molti a pensarla come me.




Giuseppe

2 commenti:

  1. Certo, la situazione "peggiora" sempre più... in America sui bigliettini da visita, per esempio, è necessario inserire: nome, cognome, numero di telefono e profilo Facebook. Noi, in Italia, lo utilizziamo soprattutto per i nostri affari "privati".
    Io sono amante della tecnologia: ho per anni scritto in un blog, utilizzo Facebook, MSN, ... Eppure, sono anche tra le poche a cui spesso piace scrivere una lettera... è tutta un'altra cosa! :)

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  2. Concordo pienamente con te, Lisa. Tant'è che spesso mi ritrovo con una penna in mano ed un foglio davanti.

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